LA CUCINA ITALIANA 1933
ftiltífiS Vi pare la maniera di offrire ospitalità? Ogni ospite ha tendenze, prefe- renze, regimi e magagne sue par- ticolari. A una medesima tavola siedono vegetariani, carnivori, on- nivori, sobrii, esuberanti, urice- mici, cardiaci, dispeptici, diabe- tici; ciò nonostante, tutti sono co- erciti sul medesimo binario ali- mentare, così che molti non man- giano o corrono il rischio di star male. Vi pare deferente, gentile, generoso, cotesto sistema? i— Sia pure. -— Permettete: non ho finito. I nostri antenati che avevano tem- po più di noi da dedicare alla cu- cina e alla tavola e perciò più di noi s'intendevano dell'una e del- l'altra, erano, a questo riguardo, di tale larghezza che le liste dei loro conviti ci danno l'impressio- ne della pazzia. I menus dell'e- poca napoleonica — per parlarvi di tempi abbastanza vicini al no- stro — ci sembrano terrificanti. Per un pranzo di sessanta coper- ti i potage s erano almeno sei; e altrettanti i relevès de potage, co- me allora si chiamava il capitolo dei pesci; poi venivano trentadue entrèes, poi dodici grosses pièces; poi dodici plats de Rót e, infine, ventiquattro entremets... •— Io sarei morta. — Ma no, cara amica, sareste stata benissimo e bellissima come questa sera, scegliendo ciò che vi faceva piacere, pizzicando qua e là, esplorando, assaggiando, assa- porando, in una parola, gustan- do... Non bisogna credere che i nostri antenati avessero stomachi come caverne, esofaghi da pite- càntropi e mandibole da orchi. Niente affatto. Fra i nostri ante- nati e noi la differenza sta soltan- to nel verbo gustare che noi ab- biamo sostituito con un verbo più scientifico, ma più gelido: deglu- tire. —- Noi abbiamo altro da fare. — Lo ammetto. Gli uomini della nostra generazione, e, più ancora, quelli della generazione sopraggiungente, a furia di ac- quisizioni, di scoperte, di progres- so, di velocità, di febbre, stanno corrodendo i cinque più alti doni della Divinità. Si discorre della nascita di nuovi sensi e si accen- na al sesto, al settimo e, magari, a un decimo senso; ma sta di fat- to che dei cinque che Iddio ci ha concesso, uno, il gusto, sta tiran- do le cuoia, un altro — l'odorato <— in quest'èra di petrolio, di an- tracite, di bitume e di prodotti chimici, viene sottoposto alle più orribili torture. Quanto al tatto, chiamiamolo pure con tale eufe- mismo, io non oso pronunciarmi innanzi a persone più sensibili e competenti di me. — Badate... >— Ma da una sintomatologia generale, vagante, per così dire, nell'aria, da confidenze e da in- formazioni particolari, mi pare che si vada male. Basterebbero le cifre della depauperazione demo- grafica di ogni paese per dimo- strare lo scadimento o, quanto meno, il cattivo impiego di que- sto senso. — Di chi la colpa? — Non mi pronuncio. Talu- ni affermano che sia lo sport; al- tri suppongono una causa nella influenza deleteria delle grandi città; altri, invece incolpano la depressione economica, ed altri ancora lo smidollamento della ci- nematografia, della letteratura, del giornalismi e del teatro. — Protesto con tutte le mie forze! r— Proteste sterili... — Pretendereste che le at- trici?... •— Io non pretendo niente: mi limito a constatare. C'è chi so- stiene, infine, che la progressiva frigidità del senso del tatto sia strettamente connessa con lo sta- to di spregio e di rozzezza in cui giace il senso del gusto. Tavola e talamo sono termini comunicanti. C'è poco da sperare, soggiungo- no gli assertori di cotesta tesi, da uomini che, di propria volontà e senza alcuna imperiosa ragione, non bevono vino e non mangia- no carne, e da donne che, in o- maggio a chi sa quale estetica, si nutrono di aceto e di limone. — Siete anche voi partigiano della donna-cannone? —- Nè di donne-cannone, nè di giganti da ring; ma una uma- nità di solidi maschi e di genero- se fattrici mi pare preferibile alla umanità che ci attornia, la quale pare vada sempre più concentran- do la sua vitalità intorno ai due sensi più cerebrali e più deboli: la vista e l'udito. Noi finiremo per vivere con gli occhi e con gli orecchi più che col rimanente. Forse è per questo, mia cara ami- ca, che si vedono in giro tanti sordi e tanti miopi. In conclusione mentre le gene- razioni scomparse offrivano in ogni classe maggioranze di ma- gnifici gaudenti, le nostre e quel- le che sbocciano contengono per- centuali sempre più alte di me- lanconici voyeurs. t — Voi vedete troppo nero. 1— Finché potrò sedere a tavo- le imbandite come questa sarò sempre ottimista. — Non si direbbe. — Non ho parlato per coloro che conoscono e apprezzano gli apporti di una tavola sapiente, ma per quelli che li ignorano o li sdegnano. — Mi disorientate. »— E ' un biasimo? <—- Io lo direi un premio. •— D'incoraggiamento? — Fatemi versare un altro dito di quel Falerno. E' un vo- stro delizioso alleato... Dio mio, quale spreco! — Dove? — Guardate quanta roba se- guita a passare sotto i nostri oc- chi; sono montagne, catapulte, voragini di cibi. Qui sta l'eccesso di cui parlavo prima: è nella quantità, non nella varietà delle vivande. Non vedete che i due terzi tornano indietro? Perchè apprestare per duecento persone quanto è visibilmente bastevole per mille? In cotesto sciupìo c'è qualcosa che ferisce e offende il senso della discrezione e dell'e- quilibrio, che è in ognuno di noi. — Perchè lo chiamate sciupìo ? Perchè considerate sprecato tutto quanto non è utilizzato da voi e dagli altri ospiti? E' un difetto di immaginazione, mia cara, ed è un segno, se permettete, di ava- rizia. Scommetto che siete una avara. — Mettetevi d'accordo con voi stesso; poc'anzi mi avete ac- cusata del contrario. — Non giocate di avvocatura. Voi non pensate, per esempio, al personale di servizio; voi vedete qui una cinquantina di serventi; immaginate il resto che non si vede e che deve pure funzionare in qualche parte del palazzo: il personale delle dispense, delle cucine, delle cantine. Eccovi un altro centinaio di bocche che do- vrà ben cenare dopo aver prepa- rato la cena per noi. Posso darvi un'altra informazione; posso dir- vi che la povera gente del quar- tiere dove trovasi ubicato il pa- lazzo Svampa fa il migliore asse- gnamento sugli « eccessi » che "voi criticate. Sono sicuro che do- mani quattro o cinquecento car- tocci verranno distribuiti in al- trettante famiglie che benediran- no gli sprechi di casa Svampa. In misura più o meno limitata ciò succede tutti i giorni, poiché qua- si ogni sera il mio amico suole intrattenere con pari dovizia nu- merosi ospiti. Il che significa che in tutto il rione non si patisce la fame e i fanciulli gracili, i vecchi, i malati, gl'indigenti hanno a di- sposizione un provvido sostenta- mento. — Che orrore elargire gli « a- vanzi » ai poveri! Con il denaro profuso in tanti banchetti il si- gnor Svampa potrebbe alleviare le altrui sofferenze con maggior dignità. — Sareste anche voi affetta da socialistite? Preferireste forse dar vita a una di quelle istruzioni così care alla filantropia demo- cratica, ad esempio, una cucina economica per assicurare ai dise- redati una scodella di fondiglio insufficiente, e talvolta ripugnan- te, e per garantire un buono sti- pendio ai funzionari che vi sono addetti? Quanto è superiore, la sempli- ce divisione di mensa praticata da Chiccone Svampa! Pensate: se in ogni rione di Roma ogni signore facesse quanto egli fa e se il suo esempio fosse seguito da tutti i ricchi esistenti in ogni parte d'I- talia! Non vi pare che sarebbe un gran passo verso la soluzione di tanti problemi di assistenza uma- na, senza creare spostati, malcon- tenti e peggio? E senza grassare l'Erario? — Cionondimeno gli avanzi sono avanzi e la loro distribuzio- ne, comunque si faccia, costitui- sce pur sempre un incitamento a una- delle forme più avvilenti della necessità : l'accattonaggio. — Se non fossimo a tavola, mia bella signora, mi verrebbe voglia di fare una dissertazione su quello che voi chiamate accat- tonaggio. In una società come la nostra tutto è accattonaggio: si accatta il pezzo di pane come si accattano una raccomandazione, un posto, un voto, un applauso. Lasciamo andare simile argo- mento. — Non vi adirate... Quando sono in compagnia di uomini il- lustri cerco di imparare. Che bi- sogno c'è di ostentare, scusate se insisto, sotto i nostri occhi un'ab- bondanza quasi orgiastica, quan- do la maggior parte ha una di- versa destinazione? -— Che cosa pensate voi di certi anfitrioni che vi fanno se- dere alla loro tavola con altri otto infelici e vi mettono sotto gli oc- chi un pollastrello striminzito, una bottigliuccia di vinello, un dolcino gramo gramo, una melet- ta stentata e quattro noci? Nel convitare, signora mia, c'è una educazione, c'è un'arte c c'è una maestà. L'educazione ha rappor- to con la quantità l'arte con la se- lezione la maestà non può scatu- rire che dal nobile e dal gran- dioso. Alla sua maniera Chiccone Svampa è un monarca... La soneria, trilla lungamente per annunciare il quinto capitolo. La dicitura è breve: Gelati e granite di mille fiori. Moscati e Malvasie. Durante il quinto capitolo : Boccherini - Sonate. Il salone s'è fatto rumoroso : le conversazioni sono alte e generali. Il ricchissimojervizio di gelateria c la mescita dei vini liquorosi pas- sano quasi inosservati. Si direbbe che i convitati siano impazienti; alcuni tentativi di oratoria vengono perentoriamen- te stroncati. Il quadrante di segnalazione fa lampeggiare un altro avviso : SESTO CAPITOLO. Doni delle riserve Svampa - Fa- giani, pernici, beccacele, quaglie, starne, tordi, beccafichi e altra selvaggina ammannita per ogni intendimento. Tutte le grandi insegne dei vi- tigni del Piemonte• Barolo - Bar- baresco - Carema - Nebiolo ecc. Durante il sesto capitolo : Vi- valdi - La caccia {dal concerto grosso « Le sta<?jnni »). Poi volgendosi ad un dome- stico : — Chiamatemi il maggiordo- mo — ordina. In quella, in fondo alla sala, da una delle porte opposte al soppal- co, s'alza uno sbattere di voci : — E'qui! è qui! Nel vano appare, infatti, la fi- gura del giornalista seguito da un vecchio servitore. — Ebbene? — interroga l'uo- mo mascherato. — Voleva andarsene a tutti i costi — risponde il servitore — ma in base alle istruzioni ricevute siamo riusciti a trattenerlo. La folla sembra disorientata. — Favorisca sig. Grattaròla — riprende l'illusionista. — Perchè tentare di sottrarsi agli impegni? Venga avanti senza timore. Que- sta sera lei è in mio potere; non le succederà alcunché di male. Ve- drà. Venga a sedersi vicino a me. — Niente timore! — avverte una voce chiara — Un guasto di corrente. La folla è interdetta. Di repente, da un angolo del soffitto sprizza il raggio intensis- simo di un riflettore che percorre le tavole come a una ricerca e si ferma al centro. Echeggia un grido di stupefa- zione : — Un uomo mascherato! Infatti, nel cono luminoso, si disegna la figura immobile di un uomo in marsina. L'amido dello sparato e del colletto getta riflessi di maiolica, mentre uno scintillìo di àgata sfugge dagli occhi, attra- verso i fori di una piccola masche- ra di velluto nero che gli copre il volto sino all'altezza delle labbra affilate da un sorriso ermetico. Capitolo quattordicesimo Al t re sorprese La folla dei convitati è soggio- gata. Il silenzio è teso da una curio- sità acuta dhe Io sguardo magne- tico dell'uomo mascherato piega e mantiene immobile. Una esclamazione di voce fem- minile rompe l'incantesimo. — Chi sarà? Un'altra voce più robusta gri- da : — Giù la maschera! Il grido, raccolto e ripetuto da ogni tavola, diventa altissimo. Con un gesto della mano lo sconosciuto disarma il clamore e riconduce il silenzio. — Prima di togliermi la ma- schera — scandisce con voce ni- tida — devo fare una comunica- zione importante a un signore qui presente. I convitati seguono attentissimi il movimento degli occhi dell'uo- mo mascherato che frugano se- guendo il raggio del riflettore il quale si sposta lentamente batten- do tavola per tavola. — Eccolo! — esclama l'indivi- duo misterioso. II cono luminoso si è arrestato sulla tavola a cui siede il direttore del Silurante che, abbacinato, si passa la mano sugli occhi. Con sveltezza l'uomo della ma- schera gli si è portato vicino. — Ho l'onore di parlare al si- gnor Demos Grattaròla, non è ve- ro? Io sono un suo collega : un il- lusionista. Sono incaricato di ral- legrare questo convito con alcuni miei giuochi divertenti; ma ho bi- sogno di un compare; lei andreb- be benissimo. Accetta? Gli astanti, sempre più sorpre- si, seguono la scena, muti. Il giornalista appare imbaraz- zato nella ricerca di una risposta. — Non faccio il compare a nessuno — risponde secco. — Sia gentile, signor Demos — incalza l'illusionista. — Perchè non rendermi un lieve favore? Io sono anche dilettante d'ipnotismo e lei è un ottimo soggetto. Lo so, perchè la conosco. Sono certo che accetterà. Guardi : riconosce que- sto documento ? L'uomo dalla maschera trae di tasca un foglio piegato che pone sotto gli occhi del suo interlocu- tore in modo ch'egli solo possa esaminarlo. Demos Grattaròla, turbato, si piega sul foglio per meglio distin- guere. — Legga, legga bene — ripete l'uomo — che cosa sta scritto qui ? Legga, legga... Bruxelles... 2 ago- sto... 1910... Il direttore del « Silurante » <i alza: — Bruxelles... La mia... Lei... — balbetta agitatissimo. Lo sconosciuto si pone l'indice alle labbra: — SssL Non faccia impruden- ze... Non bisogna rivelare i no- stri segreti professionali. Allora, siamo intesi? Accetta la mia pro- posta? Il giornalista è pallido e si svin- cola come se volesse liberarsi dal- la molestia del proiettore che lo tiene quasi inchiodato sotto il suo raggio abbagliante. — ... Va bene... come vuole... Un lungo mormorio accoglie le parole pronunciate a stento. L'uomo dalla maschera si vol- ge agli astanti che inconsapevol- mente si alzano per meglio vede- re ed ascoltare. — Sono lieto — egli dice — che il mio primo piccolo esperimento di suggestione sia riuscito. Il più interessante verrà dopo. Non vo- glio interrompere la cena... Arri- vederci al caffè. Il raggio del proiettore si estin- gue e un grande vocìo si propàga nell'oscurità. Dopo qualche secondo riappa- re la luce normale. Le serventi ch'erano rimaste ferme a tergo delle tavole, ripren- dono il servizio, ma i commenti sulla stranezza della scena inve- stono i convitati. Tutti gli sguardi convergono sull'illusionista e il suo breve dia- logo con il direttore del Silurante. — Se si tratta di un trucco, bi- sogna dire che è molto bene or- ganizzato — dice la stella a sua eccellenza Mazzacorati. — Perchè un trucco? — Tutti conosciamo l'attacco del Silurante a Svampa. — Ebbene? — Non si è rivolto a Grattaròla l'uomo mascherato? Altri convitati intervengono: — Non vedo il nesso. — Grattaròla non è un uomo da prestarsi a fare il compare di un illusionista. — Lei crede che l'uomo ma- scherato sia proprio un gioco- liere? — Chi sarebbe dunque ? — Somiglia tutto all'attore ci- nematografico Buster Keaton; mi hanno detto che è a Roma. Demos Grattaròla che si asciu- ga la fronte e ha il viso contratto e gli occhi bassi, radenti e sospet- tosi di chi cerca uno scampo. — Mi hanno teso un agguato — mormora al suo vicino. — Non dovevi venire; te l'ave- vo detto. — Il festino non è finito! — Io non ho capito niente — dice la poetessa a Nando più che mai impassibile. — Ma chi era l'uomo mascherato? — Mah! — Sa che lei è un tipo curioso? - I o ? — Non mangia, non beve, non parla. Nando sorride chetamente e guarda distratto la sala. Il frastuono delle conversazio- ni è assordante. Il tema è unico : l'apparizione. — Le pare che Buster Keaton parli l'italiano come lo ha parlato il fantasma di poco fa? — Fantasma : ha detto benissi- mo; è apparso e scomparso pro- prio come un fantasma. — Che cosa ha fatto vedere a Demos per indurlo ad accettare? —• Commedia! Sono tutti e due d'accordo. — Lei, Mazzacorati; qual'è la sua opinione? — Per me si tratta di una scena divertentissima, montata da un regisseur di grande abilità; trovo che il mio amico Svampa è un in- comparabile padrone di casa; per offrire una cena a tanti ospiti di riguardo, non basta che la cena sia buona, bisogna anche che non sia noiosa. — Vedremo come andrà a fi- nire. — Dopo Diana, ecco Pomona. — Che meraviglia di frutta. Fantastico! Guardate quelle pe- sche! E l'uva? E i lamponi? — Hai visto la dolcerìa? — Sembra una diffa araba. — In fondo, Grattaròla non ha tutti i torti. Troppo fasto. — Trimalcione è imbottigliato! — Ma che Grattaròla d'Egitto! Bisogna godere la vita. — Quando una terra come la nostra offre simili doni, sarebbe una profanazione disdegnarli. — Hai ragione. Versa anche a me un calice di spumante, bella ragazza. Nessuno alza un brindisi ? — Ce la farai a tornare a casa? — Non vedo più Demos. — Sarà andato a far le prove. — Evviva Chiccone! — Signora, questa sera voglio farle una dichiarazione. — Ha la penna? —Bene! brava! Così si metto- no a posto i millantatori. — Che scrivono a macchina.., — Stai zitto. - C h e c'è? — L'uomo in maschera. — Parla Sua Eccellenza. Infatti Mazzacorati s'è alzato : — Signore e signori — avverte facendo tinnire un bicchiere col castone di un anello per ottenere silenzio. — Vi propongo di passa- re nella sala attigua per prendervi il caffè. Siamo attesi... La più rumorosa confusione se- gue l'invito. Sedie smosse, tovaglioli gettati, sorsate finali, risate, clamori, bat- tute tronche, gesti espansivi. Tre porte sulla medesima pare- te vengono aperte da domestici e i convitati a piccoli gruppi vi si infilano ridanciani e sconnessi, accesi gli occhi e le gote, marino il piede, il cuore beato. La sala, ampia quanto quella del convito, è ingombra di tavoli- netti laccati e attorniati da pol- troncine tese in gai broccati di Ve- nezia. Uno spazio largo come un cor- ridoio divide la distesa dei tavoli- ni e conduce a un soppalco a due gradini addossato alla parete corta del fondo. Dietro il soppalco, ricoperto da un sontuoso buhjiara, si apre una porta a lunghi cortinaggi di seta pesante. I cortinaggi sono chiusi. Sui tavolini si effonde * n a luce riposata, mentre il soppalco sbal- za con vivezza sotto il fuoco in- crociato di lampade da ribalta dis- simulate con eleganza entro una siepe di piante esotiche che n« fiancheggiano i lati. UMBERTO NOTARI (continua) E LA CUCINA SAGGIO DI ECONOMIA A ROMANZO di U M B E R TO N O T A R I LA CUCINA ITALIANA " Pag. 7 W. 2 - 15 F ebb r a io 1 9 3 3 - XI I i i MiiaiBMEmsEBEssaaaiBagaEEm^
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