LA CUCINA ITALIANA 1935
30 I,A CUCINA ITALIANA 1 marzo 1935- X I II A x a o i ^ l 1 ) 1 P A S S I O Il pranzeott delal bocciataur L a casa di mio cugino Rosal indo e ra in c ima al paese, isolata dal grup- po di case che si addossavano a un vecchio castel lo at tr ibui to non sò più a. che Barbaros sa vi ssuto intorno al... 400 ma che non è mai esistito. Chiac- chiere d' ignorant i, che si son t raman- date per quat tro secoli non si sa come. Las c i amo stare la data: ma il ca- stello, pr ima di tutto, non è che una c a sa a torrione costrui ta nei pr imi deli'800 éa un muratore estroso, che sapeva d' archi tet tura come io sò di cinese: in secondo luogo, la casa f u abi tata, sì, da un guerriero che in- cut eva terrore al ia popolazione, ma per ridere. Si t rat tava, in real tà, di un pazzoide che minacc i ava dal la fi- nest ra quando non lo vedeva nessu- no, sguainando uno sciabolone del nonno, ch' era stato capi tano del la guardia nazionale, ai tempi del Gran- duca di Toscana. E r a così poco pericoloso, che intor- no a quel la specie di torrione dove egli s 'era bar r i cata con la sua paz- zia,. sorsero subi to le caset te che an- cora vedi, con le scale esterne chi» salgono sui bal latoi senza r inghiera su cui si aprono gli usci verdi delle abitazioni. E ' il nucleo del la povera gente del paese: pescatori, mar inari che vivono o v i vevano al lora con quei quat tro ¡soldi degl ' inval idi, operai t ra i più modest i. L a casa di Rosal indo, invece, sul cocuzzolo del poggio, davanti ai vi- gneti che cost i tuivano la tenuta, è una vi l letta che ha anch'es&a due rampe di scale esterne, ma che fu- rori volute, ment re quel le che soffo- c ano il torrione del Barbaross ino do- vet tero essere costrui te dopo, quando il muratore s 'avvide che in qualche ma do bi sognava infi lare l 'uscio. Rosal indo era figliuolo di un capi- t ano mar i t t imo e s tudiava anche lui In una c i t tadina del cont inente. E- r avamo a dozzina nel la stessa c a sa — dal ia s ignora Be r ta — una Zitellona che ci f ac eva da mamma, un po' ner vosa, ma rassegnata. Doveva essere s tata bel la: era cer- t amente buona e genti le. Rosal indo f a c e va il terzo anno: io, in quel lugl io del mi l lenovecento e tant i , avrei dovuto prendere la licen- za liceale. E r o invece bocciato in un modo indegno. E mio cugino, tanto per tenere al to il nome del la fami g l i a, era schiacciato anclia lui clamorosa- me n t e Ma non avevo che diciotto anni. JJuanti ne sono g ià passat i? — A proposito, tu quanti anni ha i? .— mi domandava l 'al tro giorno un ami co let terato che in real tà non li dimost ra tutti, ma è nato nel... (uno. — Tant i : rispondo. Sono della clas- a* del.... tacìnque. — Par lo sul serio. ,. Sopragg iunge un al t ro amico, lette- rato anche lui, al quale il col lega (col- lega per un al tro verso, I letterati sono loro, io non c 'entro) r ivolge la stessa domanda. — Tanti — risponde costui. E accu- sa. coragg iosamente l a sua età. —- Anche tu del... iadnque al lora! Qua: diamoci un abbraccio. Non sa- pevo ch ' eravamo tutt 'a tre del... ta- cinque. — Ci credevi più vecchi? — do- mando. — No, ne dimostrate meno. — Ma tu, scusa, chiede ora al let- terato il col lega l et terato: non sei del.. tcmtuno t — Macché! iadnque. E r o dunque bocciato al la licenza, li- ceale e Rosal indo, come ho detto, a- v e va preso anche lui la sua brava bocc iatura; ma in casa non lo dove- van sapere Te l egr a f ammo infat t i, dopo quel po' po' di fiasco, annunzian- do così l 'esito bri l lant issimo dei no- stri esami.:. Vittoriosi giungeremo domani. E ar r i vammo sprizzando gioia. Fu ia quel la vi l let ta del castel lo di cui capi tan For tunato, il babbo di Rosal indo. aveva f a t to una specie di museo con gl i oggetti che por tava v i a v ia dai suoi v i aggi in Cina, nel Giappone, in Amer i ca, che le nostre mamme f es tegg i arono il nostro trion- fo. Che pranzet to ci avevano amman- nito! E come gli f ac emmo onore, no- nostante il rimorso che un poco ci rodeva dentro, ma r i sparmiava a quelle care creature un dolore im- menso. Mang i ammo in letizia. — Ci pensi, mamma, che f r a un an- no sarò capi tano anch'io"? Tu mi vedi g ià sul ponte di comando, al posto del babbo, su quel la sua nave che vola, lo sò. L a signora Enr i che t ta guardò il fi- gl iolo con le lacr ime agli occhi: io non ebbi il coraggio di di re a mia ¡sat ira « t e » genna i« mi avrebbero imberret tato matricol ino, ma ella in- tese la mia modest ia e mi accarezzò con uno sguardo pieno di dolcezza. Ri cordo, di quel pranzo d'onore, certi crost ini d' acciughe e d' interiora di pollo che ci servirono come anti- pasto, un dent ice in bianco con una salsa rovente di capperi e d' acciughe del la Gorgoua e il r ipieno di una gal l ina ot tenuto con un impasto dì uova, pan grat tato, formagg i o, latte e qualche chi cco d'Uva, morbido coma una pas ta reale; ma rammento, so- prattutto, l ' arr ivo del post ino Er a v amo al le f rut ta. L a donna a- veva por tato In tavola una enorme f rut t i era di cr i stal lo co lma di ananas macera to nel maraschino, quando il postino bussò alla porta. Sbirciai la l et tera cho l a donna a- veva consegnato a mi a madre e mi sentii accapponare !a pelle. — Per chè non l 'apri Ma r i a? — do- mandò la z ia Enr i chet ta. — Non c'è f ur i a: grazie. E ' l a buo- na Be r ta che ci ant icipa la notizia vent iquat t r ' ore dopo... — Legg i , ti prego, insistè. E ' un» gioia di più. Mi a madre aprì In lettera, lessa, Impallidì, — E ' una ca t t i va not i z ia? — No: ti dirò poi Enr i chet ta. Ma perchè, figlioli, non brindiamo al vo- stro t r i onfo? L a donna prese dal la credenza una bot t igl ia d' ansonaca e mia madre chiese ella di mescere il vino profu- ma to vecchio di quat tro anni. E r a ri- mas ta in piedi. Ci alzammo. — Non f a rò un. brindisi — disse — che non sarei càpace: vogl io solo ri- cordarvi, figlioli, c h e ' l a promessa che avete f a t to a voi stessi, oggi, dovrà essere mantenuta. E r a al la mia sinistra. Si avvicinò, mi prese il vi so t ra le mani che tre- mavano, così, per -guardarmi negli oo- chi. e mi baciò che piàngeva. A ottobre passai. GIACOMO PAVONI
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