LA CUCINA ITALIANA 1937
» V Luglio 19S7-XV EA CUCINA ITALIANA Intermezzo napoletano Da Posiiiipo a Bellavista alla ricerca di una ricetta joanneila da Canzio e la scoperta dei maccheroni 1 ragù, condimento regaie da Federico di-Svevia a Ferdinando ¡1 Bisogna conoscere questa vecchia Napoli: non solo nelle glorie maggio-- ri, ma anche in quelle minori, non ul- time quelle (perchè no?) cucinarie. Cominciamo dai maccheroni, di cui la tradizione dice essere patria Na- poli. Qual'è il sugo più adatto per 1 maccheroni, i veri maccheroni di zita? I l sugo di carne, preparato a « ragù », cpme il miglior sugo per i vermicelli, è quello tirato con le vongole (ne par- leremo un'altra volta). Per maccheroni e vermicelli c'è an- che un sugo più comune, quello di pomodoro semplice, ma è il sugo di tutti i giorni. Il « ragù » è, invece, una vera piccola opera d'arte, che nacque, secondo una leggiadra leggenda esu- mata e ancor più abbellita da Matilde Serao, a Vico dei Cortellari,'ed ebbe il battesimo alla, real tavola di Federi- co Secondo di Svevia. In casa di amiche, che abitano pro- prio in prossimità del palazzo che al- bergò Francesco De Sanctìs, il quale non dimenticò nelle sue Memorie di celebrare i « maccheroni di zita » pre- paratigli da Annarella che gli porta- rono fortuna. Siamo intorno a una lin- da, patriarcale tavola. La tovaglia grossa a nido d'api, tessuta a mano, odora di spigo che è stata rintanata nel cassettone a lungo, e si è permeata di quest'aulente paesanità la quale fa sembrare più dolce e accetto il pane « di casa » che trionfa nel bel mezzo di essa. Più « tondo » e più grato ed sembra il vinetto rosato di Porto d'Ischia, appena spillato dal fresco « basso » del palazzo avito. Siamo ad un quinto piano della cit- tà vecchia; in fondo il mare e il Ve- suvio, di cui ieri al tramonto, abbiamo ammirato in un trionfo di giallo e di verde, con nel fondo il soie calante, ì cespi di leopardiana ginestra. Oggi si fa onore ai maccheroni col ragù, alla casalinga, di cui finora ab- biamo ricercato invano la ricetta « ve- race » da Posiiiipo a Bellavista. Su- perlativi e semplici, gratissimi a.1 pa- lato, digeribilissimi sono i grossi mac- cheroni al ragù. Domandiamo alla padrona di casa, brava quanto colta massaia, se vi sia- no segreti sul vero « ragù », dappoiché poco abbiam potuto raccogliere dal- l'inchiesta mattutina. Ci sono: e come! C'è nazitutto un segreto del Mago Che ispirò a Matilde Serao alcune pa- gine deliziose» La narrazione è riman- 1 data al «dessert»; dopo la pastiera. (La pastiera per chi non lo sapesse, è il dolce napoletano, profumato di acqua d,i fiori d'arancio, a base di pasta frolla e di grano intero teneris- simo perchè tenuto a lungo in acqua). .Finita la pastiera, dopo il primo « dessert » ne abbiamo un secondo sto- rico-letterario e non meno ghiotto. Secondo quanto afferma Matilde Se- rao, dunque, nel segreto del Mago del- le « Leggende Napoletane » —- ci' rac- conta la nobildonna massaia .che ci ospita — i maccheroni avrebbero avu- to origine in Napoli nel 1220. Un certo Cicho, detto il mago, abi- tava in quell'anno, « regnando il gran- de Re Federico I I di Svevia », al vico dei Cortellari in una casetta orrida ' e misteriosa: molte comari avevano tentatp di penetrare i segreti del vec- chio Cicho, il vegliardo alchimista, vincendo una tal quale paura dei pre- sidii che l'alchimista consigliava con- tro la curiosità delle donnicciole. Si diceva anche che Cicho avesse com- mercio col diavolo in persona; ma Joanneila, bella e scaltra, penetrò un grande segreto di Cicho, quello di una vivanda squisita. Joanneila era stata guidata da im odore divino e aveva avuto per complice una impo- sta cadente. j Carpito il segreto del Mago, Joan- neila lo confidò a suo marito, sguat- tero delle reali cucine. Ne fu edotto il capo cuoco e alfine la novella fu recata al Re. Ma lasciamo la parola a Donna Ma- tilde, ineguagliabile e infanticabile maestra di giornalismo. «... Piacque al Re la novella, e dette ordine che la moglie del guattero sii recasse nelle reali cucine e compo- j nesse la prelibata vivanda : infatti la ' Joanneila accorse puntualmente ed in tre ore ebbe tutto fatto. Ecco come: prese prima fior di farina, la impastò con poca acqua, sale e uova, maneg- giando la pasta lungamente per raffi- narla e per ridurla sottile sottile co- me una tela; poi la tagliò con un suo coltelluccio in piccole striscie, queste arrotolò a forma di cannelli e fat- tane una grande quantità, essendo morbidi e umiducci, li mise a rasciu- gare al sole. Poi mise in tegame strut- to di porco, cipolla tagliuzzata finis- sima e sale; quando la cipolla fu sof- t fritta vi mise un grosso pezzo di car- ne; quando questa fu crogiolata bene 1 ed acquistato un colore bruno-dorato, vi versò dentro il sugo dènso e rosso dei pomodori che aveva spremuti in uno staccio; scoprì il tegame e lasciò cuocere a fuoco lento carne e salsa. « Quando l'ora del pranzo fu venu- ta, ella tenne preparata una caldaia d'acqua bollente dove rovesciò i can- nelli di pasta: intanto che cuoceva- no, ella grattugiò una grande quanti- tà di quel dolce formaggio che ha nome da. Parma e si fabbrica a Lodi. Cotta a punto la pasta la separò dal- l'acqua ed in un bacile di maiolica la condì man mano con una cucchiaia- ta di formaggio ed una di salsa. Così fu la vivanda famosa che andò in- nanzi al grande Federico, il quale ne rimase meravigliato e compiaciuto; e chiamata a sè la Joanneila di Canzio, le disse come aveva potuto immagi- nare un intingolo cfasì armonioso e stupendo. La rea femmina disse che ne aveva avuto rivelazióne in sogno da un angelo; il gran Re volle che il cuoco apprendesse la ricetta e donò alla Joanneila cento monete d'oro, di- cendo che era molto da ricompensarsi colui che per una sì grande parte ave- va concorso alla felicità dell'uomo. Ma non fu questa soltanto la fortuna di Joanneila poiché ogni conte ed ogni dignitario volle avere la ricetta e mandò il proprio cuoco ad imparare da lei, dandole grosso premio; e dopo i dignitari vennero i ricchi borghesi e poi i mercanti e poi i lavoratori di giornata e poi i poveri, dando ognuno alla donna quel che poteva. Nel corso di sei mesi tutta' Napoli si cibava dei deliziosi maccheroni — da Macarus, cibo divino — e la Joanneila era ricca ». C'è in questa narrazione una pìc- cola inesattezza. Il pomodoro dove- va... essere introdotto in Italia, dal Perù, solo nel 1600, cioè quattro se- coli dopo; ma il l'acconto è bello ed è soffuso di grazia tutta partenopea; altra inesattezza è la derivazione di maccheroni dal greco makaros, che significa beato: ma. spiegazioni atten- dibili non ce ne sono A Napoli anzi il formato tipico per il ragù è chiamato mezze zita; in Toscana le mezze zita (celebri quelli dì Sansepolcro) sono chiamate sen- z'altro « napoletani ». Dopo Federico II, Ferdinando I I di Borbone fu entusiasta del ragù. 3ELVA ROLLI
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