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dellaconsonante seguente”
9
; essa tuttavia nonconvince inquanto imponeal dialetto
parmigianomoderno la “camiciadi forza”della lingua italiana, dove in effetti levo-
cali toniche seguite da una consonante lunga
10
(“doppia” secondo la terminologia di
Bocchialini, che poi è quella usata oggi dai non specialisti) sono più brevi di quelle
seguitedaunaconsonantebreve (o semplice secondo la terminologiadelmedesimo):
come si vedrà più avanti, nel dialetto parmigiano moderno le consonanti lunghe
(“doppie”) sono usate in via eccezionale come esito della combinazione di due con-
sonanti identiche oppure nell’ambitodi qualche prestitonon adattato (come, per es.,
césso
“cesso”).
I fenomeni inquestione possono essere spiegatimeglio con l’ipotesi che nel dia-
lettoparmigiano la vocale della sillaba accentata di una parola possa avere due into-
nazioni diverse: una semplice e una ascendente
11
.
9
Cf. J.Bocchialini,
Il dialettovivodiParmae la sua letteratura,
Torino, 1944, pp. 14-16.
Tale ipotesi è condivisa daA. DeMarchi,
Il dialetto di Parma,
Parma, 1976, p. 33.
10
Si condivide il punto di vista di O. von Essen,
Allgemeine und angewandte Phonetik,
Darmstadt, 1979, p. 173 e ss.
11
Per spiegare il fenomeno inunaprospettiva storica, si devepartiredall’ipotesi che secoli
fa il dialettoparmigianoavesseconsonanti lunghe (o“doppie”) analogheaquelledell’italiano
odierno, che poi ha abbreviato, cioè ridotto a “semplici”, come gli altri dialetti emiliani (cf.
F. Foresti,
Profilo linguisticodell’Emilia-Romagna
,Bari, 2010, p. 125): inquei tempi levocali
toniche seguite da una consonante breve venivano pronunciate come lunghe, mentre quelle
seguite da una consonante lunga oda taluni gruppi consonantici venivanopronunciate come
brevi.
Le consonanti lunghe si abbreviarono nel corso di un processo evolutivo che avvenne in
fasi diverse: sullabasedei dati linguistici, ègiustificato ritenere che le consonanti lungheda-
vanti alle vocali toniche più aperte (
à, è, ò
) si siano abbreviate prima di quelle davanti alle
vocali toniche più chiuse (
é, ó, ì, ù
).
In seguitoall’abbreviazionedelleconsonanti lungheche leprecedevano, levocali toniche
à, è, ò
acquisirono l’intonazione ascendente (come, per es., in
pàs
“passo”,
gàt
“gatto”,
fàt
“fatto”,
gròs
“grosso”,
còl
“collo”), con un esito analogo a quello di
à, è, ò
seguite da una
consonante (diversa da
n
) che non eramai stata lunga.
Quandopiù tardi leconsonanti lunghe si abbreviaronodinanzi allevocali toniche
é
,
ó,
que-
stedovevanoesserepronunciatepiùapertedi
é
,
ó
seguitedaconsonantebreve:poteronopassare
così a
è, ò
con intonazione semplice, occupandouno “spazio” rimastovuotoperché le antiche
è, ò
avevano già acquisito l’intonazione ascendente; è questo un fenomeno noto, di cui tratta
G. Rohlfs (
Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti,
Torino, 1966-1969,
vol. 1°, pp. 81 e 96). Ebbero così origine forme quali
mèt
“metto”,
bèc
“becco”,
fèta
“fetta”,
còp
“coppo”,
gòs
“goccio,
bòca
“bocca”,
sòn
“sonno”
pèna
“penna”; allo stessomodo si po-
trebbe spiegare
è
con intonazione semplicedella forma
vèd
“vedo, vedi”, riconducendoquesta
a *
védd
di una fase precedente, nella quale la consonante
d
avrebbe subito un allungamento
analogicooppure“espressivo”. Diversamente, levocali toniche
é
,
ó
seguitedaunaconsonante
breve (di origine romanza o sviluppatasi in un periodo successivo)mantennero il loro timbro
acquisendo l’intonazione ascendente, come, per es. in
vél
“velo”,
zél
“gelo”,
pél
“(io) pelo”,
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