Il morfo -
a
compare pure in diversi lessemi nominali di genere femminile for-
mati permezzodi suffissi derivativi; si pensi, per es., ad -
eèda
, -
èsa
,
-iìzja,
-
duùra,
-eèra
138
, -eéra
, con cui si formano nomi quali
barbajeèda
“sproloquio”,
braveèda
“sgridata”,
gabjaneèda
“stupidaggine”,
contintèsa
“contentezza”,
deblèsa
“debo-
lezza”,
grosèsa
”grossezza”,
gajardiìzia
“gagliardezza”
cargaduùra
“carico”,
castra-
duùra
“castratura”,
fioriduùra
“fioritura”,
fazoleèra
“terreno coltivato a fagioli”,
fumeèra
“nebbia”,
fruteéra
“fruttiera”.
Il morfo -
a
non compare invece nei lessemi nominali di genere femminile (non
prototipici inquantodenotano“reificazioni”) formati permezzodi suffissi derivativi
quali -
zjón
(
/-sjón
)
, -tè.
Più spesso la base della derivazione (lessema verbale o ag-
gettivale) èpresentenel dialetto, come, per es., nei casi di
concluzjón
“conclusione”,
confuzjón
“confusione”,
aclamasjón
“acclamazione”,
facilitè
“facilità”,
fertilitè
“fer-
tilità”, diversi dei quali potrebberoessere tuttaviaprestiti adattati dall’italiano.Talora
essamanca, come, per es., nei casi di
conisjón
“cognizione”,
televizjón
“televisione”,
ragión
“ragione”,
citè
“città”, che sono tutti quanti prestiti dall’italiano
139
.
Sono rari i nomi di genere femminile che adunabase radicale (non scomponibile
inmorfemi) aggiungono non -
a
, ma il morfo -
ø,
omofono con quello del maschile
singolare. Esempi:
màn
“mano”,
rèj
“rete”,
sèj
“sete”
140
; rientra qui pure
ràdjo
“radio”, che èunprestito evidentedall’italiano, denotandoun apparecchio inventato
nei primi decenni del XX secolo.
Tranne ilmonosillabo
cà
“casa”, che rimane invariato, i lessemi nominali di genere
femminile terminanti in -
a
esprimono il plurale cambiando
-a
in -
i
141
; cf.
foòla
“fa-
138
C’è anche un suffisso omofono –
eèra
usato per formare i “peggiorativi”; cf., per es.,
donleèra
“donnaccia” (<
dòna
),
genteèra
“gentaglia” (<
génta
).
139
Se
citè
e
ragión
derivassero direttamente dal latino, si dovrebbero avere forme quali
sitè
e
razón
.
140
La parola
màn
è la normale continuazione di lat.
manŭ
(
m
), con caduta della vocale fi-
nale.Quantopoi a
rèj
e
sèj,
sono riconducibili a lat.
rētem
e
sĭtem
tramiteuna fase intermedia
*
réd
e
*
séd
(chepresuppone la sonorizzazionedi
t
intervocalicae lacadutadi
e
finaleatona):
si può ipotizzare che
*
réd
e
*
séd
siano passate a
*
rèjd
e
*
sèjd
per una dittongazione “alla
reggiana” e successivamente la consonante finale sia caduta.Nel dialetto reggiano la fase in-
termedia della prima delle due parole si è conservata in seguito ad un rifacimento con la de-
sinenza -
a
(
réda
), mentre la seconda è
sèj
, come in dialetto parmigiano (cf. G. B. Ferrari,
Vocabolario reggiano-italiano
, ReggioEmilia, 1832, vol. 2°, pp. 177 e 255).
141
Questa vocale non ha nulla a che vedere con la vocale
e
della desinenza di femminile
pluraledell’italiano, vistoche l’anticadesinenza -
e
(< lat. -
ae
oppure–
as
) ècaduta indialetto
parmigiano: essa è dovuta ad rifacimento analogico (cf. cf. Rohlfs, op. cit., vol. 1°, pp. 180-
181); forse il punto di partenza di tale rifacimento va visto nell’opposizione
la
(singolare) ≈
il
(plurale) riscontrabileper le formedi femminiledell’articolodeterminativo. La situazione
precedente a tale rifacimento si conserva ancora oggi nel dialetto bolognese, che usa spesso
formedi pluralecon significante -
ø;
cf., per es.,
dòna
“donna”≈
dòn
“donne”,
gànba
“gamba”
≈
gànb
“gambe” (Vitali, op. cit., p. 28). Si potrebbe ritenere che la forma
oór
“ore” di gruppi
quali
adò
^
oór
“alledue”,
a trè
^
oór
“alle tre” sia il relittodi una situazionepiù antica, simile
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